Il regista Fredo Valla riceve a Barcellona il “Premio Robert Lafont” 2024

Oggi (12 dicembre), il regista Fredo Valla riceve a Barcellona il «Premio Robèrt Lafont» 2024 per l’impegno «nella difesa e la promozione della lingua occitana».

Pubblichiamo un estratto del suo intervento alla cerimonia organizzata dalla Generalitat di Catalunya.

«Considero il premio Robert Lafont un riconoscimento per il mio mezzo secolo di passione e militanza per l’Occitania. Conobbi Robert Lafont nei primi anni Settanta durante le Università estive, a Nimes, Montpellier, Tolosa… Le sue conferenze erano entusiasmanti. Ne ricordo una in particolare, sul poeta Frederì Mistral e la Rivolta dei Vignerons del 1905. Più tardi, era la seconda metà degli anni Novanta, lo intervistammo, Diego Anghilante e io, sulle rive dell’Arno a Firenze, dove era venuto ad abitare con la compagna Fausta Garavini, storica della letteratura occitana moderna. Giravamo «E i lo solelh», il film su François Fontan e gli chiedemmo una testimonianza. Lui, regionalista autonomista, di fede socialista (fu consigliere del presidente francese Mitterand), non lesinò critiche alla teoria fontaniana di «ogni lingua uno stato» ma lo fece con rispetto.

Ora, ciò che sto per dirvi delle Valli Occitane, estremo oriente del Paese d’oc, è una parte rilevante della mia vita. Alla fine degli anni Sessanta, fu la scoperta della nostra identità linguistica: nelle Valli si parlava un dialetto che non era semplicemente «nosto modo» o «patois» ma una gloriosissima lingua, quella dei trovatori che fra l’XI e il XIII secolo avevano forgiato una poesia laica ispirata all’amore. Per me, montanaro, fu la rivelazione di una patente di nobiltà. In quegli anni incontrai la storia dell’Occitania. Nei primi tempi fu soprattutto folclore, ma da quel movimento sorsero dei poeti, contadini, artigiani, insegnanti, che scrivevano in oc. Su tutti eccelsero Bep Rous dal Jouve, Tavio Cosio, Franc Bronzat, e, per la qualità dei loro versi, Sergio Arneodo e Barbo Toni Bodrìer che ancora oggi rimane il nostro massimo poeta. Sergio Arneodo pubblicava un mensile, parlava e insegnava il dialetto occitano (lui diceva provenzale) ai ragazzi della scuola nella borgata dove abitava, che a loro volta divennero poeti. Il tono era di conservazione della tradizione.

A me però non bastava. Pur se abitanti tra le montagne, ero sensibile alla visione politica che si andava affermando, al processo di decolonizzazione in Africa, America latina, Asia. Il movimento clericale e tradizionalista, che traeva ispirazione dal Felibrige provenzale, non colmava i nostri sogni di un’Occitania dalle Alpi ai Pirenei. Avevamo cominciato a frequentare la Grande Occitania, dove c’erano giornali, canzoni di protesta e si parlava di politica. Martì cantava Perque m’an pas dich a l’escòla lo nom de mon pais e Occitania saluda Cuba… Vent’anni è l’età in cui si pensa di cambiare il mondo e che tutto possa accadere.

Ebbi fortuna. Incontrai dei Maestri: François Fontan, Gustavo Malan. Quando, nella seconda metà degli anni Sessanta, François Fontan arrivò a Frassino in val Varaita fu una rivoluzione: una vita ascetica, la sua. Nato in Guascogna, studi a Tolosa, giunse esule da Nizza, dove aveva patito il carcere per avere favorito i disertori che non volevano combattere contro il FLN algerino. Con il poeta Barbo Toni, l’attrice Dominique Boschero e alcuni giovani del paese fondò il MAO, Movimento Autonomista Occitano. Nelle idee autonomiste, i giovani trovavano una speranza e un’alternativa all’emigrazione che dissanguava le Valli. Fontan era ipnotico, ammaliante.

Conobbi Gustavo Malan poco dopo, verso la metà degli anni Settanta. Partigiano azionista, aveva partecipato nel dicembre 1943 all’elaborazione della «Dichiarazione dei Rappresentanti dei Popoli alpini» la «Carta di Chivasso». Nel quadro della nuova Europa democratica e federale, la Dichiarazione proponeva l’autonomia politico-amministrativa dei Popoli alpini con particolare riferimento all’assetto economico e alle minoranze. Dopo la guerra, essa fu di ispirazione per lo Statuto speciale della Valle d’ Aosta. Nelle Valli Valdesi, la Chiesa invece si oppose, temendo che per i Valdesi significasse tornare nel ghetto. Nell’occitanismo dei primordi, Gustavo vide la possibilità che l’autonomismo auspicato a Chivasso si realizzasse per i popoli alpini e per le minoranze linguistiche in Italia. Egli mi insegnò a guardare all’uomo nella sua complessità, e, da eretico valdese, a essere eretico nella vita, a confutare l’uniformità di pensiero. Malan non seppe mai distinguere fra il nazionalismo di liberazione di Fontan e il nazionalismo di dominio. Le due ipotesi – la nazionalista e l’autonomista – si scontrarono, spesso duramente. Da questa contrapposizione, e da altre, l’unità occitana cominciò a sfaldarsi. Fu la fine del movimento politico. Non di quello letterario e musicale, che fioriscono ancora oggi.

Infine il cinema. Maestro mi è stato Ermanno Olmi, che a Bassano del Grappa aveva creato una scuola. Il tema era la Postazione della Memoria. Per memoria, Ermanno non intendeva il passato, bensì il presente. Ci invitava a osservarlo al di là delle apparenze, nelle sue pieghe più nascoste, e a raccontarlo con la macchina da presa. Dai primi anni Novanta il cinema è diventato il mio mestiere. Nella mia carriera ho collezionato alcuni successi, sia come regista sia come sceneggiatore. Molti miei lavori sono dedicati alle Valli, all’Occitania.

Le Valli occitane e l’Occitania oggi? A distanza di mezzo secolo dai miei esordi, credo di essere testimone di una crisi che investe tutte le minoranze nazionali. Tra le più deboli, la crisi è più forte. Scuola, coscienza nazionale, bilinguismo, assimilazione linguistica, lingua comune, uso folclorico della lingua, autonomia, autodeterminazione in una visione plurale che si opponga al globalismo omologante, sembrano non essere più temi all’ordine del giorno. Oggi è necessario – e mi rivolgo ai giovani – tornare a lavorare con impegno. Obiettivo ineludibile è, come allora, la lingua. Una semplice politica «conservativa» non basta a evitare che una lingua di minoranza decada fino a estinguersi. Una politica efficace dev’essere «riabilitativa», con obblighi scolastici fissati per legge, istituendo classi a immersione, sul modello dei Baschi, dei Bretoni e delle Calandretas dell’Occitania grande. Nel mio cuore la speranza di un risorgimento occitano dalle Alpi ai Pirenei non è mai venuta meno. Il «premio Robert Lafont» che ricevo dalla Generalitat di Catalunya, mi onora e vorrei che segnasse l’avvio di una nuova epoca. Il mio impegno, e quello di coloro che allora furono giovani come me, non può essere stato per niente. Quelle idee un giorno torneranno: nelle forme che la storia vorrà. Ma voglio credere che torneranno.

[da LA STAMPA, 12.12.24]

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